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Studio Catizone

ESTORSIONE IN FORMA DICONSIGLIO O ESORTAZIONE?

Con due sentenze dell’ultima ora, la Corte Suprema ha lanciato messaggi severi nei confronti delle imprese sotto il segno di un reato particolarmente grave quale l’estorsione.

 

Certo, è da tempo ormai che la Corte Suprema, e segnatamente la Sez. II, ha dischiuso le porte al reato di estorsione in danno dei lavoratori. Ecco soltanto una pronuncia del passato:

 

Cass. pen., 18 febbraio 2019, n. 7304

Commette il delitto di estorsione il datore di lavoro che, mediante condotte consistenti nel prospettare a più lavoratori la mancata assunzione al lavoro e il loro licenziamento qualora non restituiscano parte della retribuzione formalmente riconosciuta nella busta paga, li costringano a corrispondere una somma mensile, procurandosi in tal modo un ingiusto profitto con altrui danno, senza che rilevi il fatto che la minaccia sia rivolta prima dell’assunzione, e senza che possa invocarsi lo stato di necessità in rapporto alla chiusura dell’attività in caso di pagamento integrale delle retribuzioni con danno per il datore di lavoro e per i lavoratori.

 

Non sorprende, quindi, in questa prospettiva, l’ultima sentenza relativa a un caso in cui Cass. pen., 9 aprile 2025, n. 14025 conferma la condanna di un datore di lavoro, oltre che per il delitto di lesione personale colposa in danno di un dipendente infortunato, anche per estorsione, in quanto gli rivolse queste parole appena prima dell’accesso in pronto soccorso: “mi raccomando, non dire che sei caduto dal container, dì che sei caduto dalla sedia, altrimenti qui chiudiamo baracca e bu rattini e siete a casa”. Ne desume la Sez. II l’idoneità della frase pronunciata dall’imputato ad integrare gli estremi della minaccia. E ciò perché si tratta di una frase volta a prospettare all’infortunato e alla moglie (dipendente della stessa azienda) la concreta perdita per entrambi del posto di lavoro e, dunque, di ogni forma di sostentamento, ove fosse emersa la reale dinamica dell’infortunio, così coartando la sua volontà: “invero, la stessa nozione di minaccia implica proprio che sia rimessa alla vittima del reato la scelta della condotta ultima da adottare, ma nella consapevolezza che, ove questa dovesse essere diversa da quella rappresentata e pretesa dal soggetto attivo, avrebbe, quale conseguenza, la realizzazione del male ingiusto prospettato”.

 

Resta comunque da aggiungere che non mancano casi di condanna dello stesso lavoratore per reato commesso in danno del datore di lavoro:

 

Cass. pen., 20 giugno 2019, n. 27556

Commette il delitto di violenza privata estorsione, l’operaio licenziato da un’azienda che tenga nei confronti del titolare una condotta intimidatoria finalizzata ad ottenere la riassunzione, allo scopo di svolgere regolare attività lavorativa ed ottenere la retribuzione dovuta

 

BASTA L’ESORTAZIONE O IL CONSIGLIO

Ma non basta. Nel caso affrontato da Cass. pen., 19 marzo 2025, n. 10974, l’amministratore unico di una S.r.l. condannato per il reato di estorsione dalla Corte d’Appello in contrasto con il Tribunale, a sua discolpa, deduce che “la vicenda di cui è processo non è comparabile a quelle nelle quali i datori di la voro si fanno firmare lettere in bianco di licenziamento da utilizzare poi al momento opportuno come arma di pressione psicologica sui lavoratori”, e che nella fattispecie mancherebbe totalmente l’elemento costitutivo del reato di estorsione consistente nella minaccia o nella violenza. La Sez. II si chiede se nella condotta dell’imputato possa ravvisarsi una minaccia idonea ad integrare il reato di estorsione. Prende atto che la dipendente (o per mancata reale corresponsione delle somme a lei erogate o per restituzione delle stesse all’imputato), in presenza di un formale stipendio mensile (lordo) di 1.533,48 euro, alla fine aveva la possibilità di avere per sé solo 500,00 euro, somma pacificamente incongrua in relazione all’attività lavorativa prestata. Ritiene indubbio che, in caso di prospettazione di licenziamento qualora non avesse accettato tale situazione, certamente sarebbe ravvisabile il reato di estorsione. Ma non esclude la configurabilità del reato di estorsione “se anche si volesse dare per assodato che nel caso in esame non è stata raggiunta la prova certa della minaccia di licenziamento da parte del datore di lavoro, ma solo del fatto che lo stesso ebbe a prospettare alla lavoratrice che, o accettava le condizioni imposte relative al trattamento retributivo o avrebbe potuto dimettersi (così di fatto comunque perdendo il lavoro)”. Ed eloquente è la conclusione formulata dalla Sez. II:

 

Anche lo strumentale uso di mezzi leciti e di azioni astrattamente consentite può assumere un significato ricattatorio e genericamente estorsivo, quando lo scopo mediato sia quello di coartare l’altrui volontà. In tal caso, l’ingiustizia del proposito rende necessariamente ingiusta la minaccia di danno rivolta alla vittima e il male minacciato, giusto obiettivamente, diventa ingiusto per il fine cui è diretto. La “minaccia”, da cui consegue la coazione della persona offesa, può presentarsi in molteplici forme ed essere esplicita o larvata, scritta o orale, determinata o indeterminata, e finanche assumere la forma – come nel caso qui in esame – di semplice esortazione e di consiglio. Ciò che rileva, al di là delle forme esteriori della condotta, è il proposito voluto dal soggetto agente, inteso a perseguire un ingiusto profitto con altrui danno, nonché l’idoneità del mezzo adoperato alla coartazione della capacità di autodeterminazione del soggetto agente. 

 

Pubblicazione sulla rivista SINTESI – Aprile 2025

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